la via francigena a ivrea

Attraverso boschi collinari saliamo verso la piccola Cappella di San Pietro Martire ed entriamo nel territorio di Ivrea.

Scendendo verso la città si intravede il Lago Sirio (0,315 Kmq.) il più grande del complesso dei cinque laghi, dei quali abbiamo già incontrato il Lago Pistono, gli altri sono : il Lago Nero, il Lago San Michele e il Lago di Campagna, alcuni dei quali incontreremo in seguito.

Percorriamo l’antica Via Sant’Ulderico che ci porta all’ingresso della Città d’Ivea, l’antica “Yporegia” poi Eporedia.

L’origine dell’antico nome deriva dalle popolazioni Celtiche che abitavano la zona prima dell’invasione romana, tesa ad assicurarsi il dominio dell’area pedemontana e quindi il controllo dei valichi alpini. Nel tentativo di conquista del territorio i romani subirono una prima dura sconfitta a dimostrazione del valore delle fiere popolazioni Celtico-Salasse che la abitavano. Dopo vari tentativi, pur senza riuscire a dominare completamente le popolazioni locali, nell’anno 100 a .C. fu istituita la colonia romana di Eporedia.

Successivamente la caduta dell’Impero romano di Occidente, iniziarono le invasioni e dominazioni barbariche e la città venne inclusa in uno dei Ducati Longobardi della regione pedemontana che comprendeva anche la Diocesi di Vercelli.

Subentrato il dominio dei Franchi, Ivrea fu sede di contea come appare in un capitolare dell’Imperatore Lotario I° risalente all’anno 825.

Verso la fine del IX sec., tramontata l’età Carolingia, la Marca di Ivrea fu assegnata ad Anscario I° che diede inizio alla dinastia Anscarica del X Secolo.

La configurazione marchionale del territorio raggiunse così la sua definitiva espressione per poi interrompersi con l’ascesa di Arduino.

Accanto alla figura, per molti versi misteriosa e leggendaria, di Arduino venne a stagliarsi quella altrettanto emblematica del Vescovo Eporediese Warmondo, uomo colto ed energico della famiglia degli Arborio.

All’inizio dell’anno Mille con la scomparsa di Arduino si perde ogni traccia della Marca d’Ivrea che viene ridimensionata tra gli eredi dello stesso i quali praticarono una politica di aperta opposizione verso le grandi Casate Imperiali straniere.

Nel 1026, Corrado di Franconia il Salico espugnò la città e nel corso del restante XI sec. si vide il consolidarsi del Potere Episcopale.

Nella seconda metà del XII sec. si susseguirono una serie di guerre con la città di Vercelli per i ripetuti tentativi di espansione di quest’ultima e per i contrasti sui pedaggi relativi alle merci provenienti d’oltralpe attraverso la Valle d’Aosta.

Federico Barbarossa, con la politica tesa a restaurare in pieno l’autorità Imperiale, insediò nel castello d’Ivrea il marchese Ranieri di Biandrate.

Dal contrasto violento che questi ebbe con le forze Vescovili e Comunali, nacque tra il 1193 e il 1195 una sollevazione popolare che portò alla cacciata del Biandrate e alla distruzione dell’antico castello di San Maurizio.

Dal Duecento si registra il consolidarsi dell’autonomia del Comune e la promulgazione delle Leggi Statutarie.

Nel 1266 Guglielmo VII° di Monferrato riesce ad ottenere la dedizione della città, nel 1271 la Signoria Monferrina è brevemente interrotta dalla dominazione del Re di Sicilia Carlo d’Angiò.

Il ritorno degli Aleramici durò ancora fino al 1313, quando la Città giurò fedeltà alla Casa Savoia.

Nel 1357-58 Amedeo di Savoia, unico incontrastato signore di Ivrea, dava inizio alla costruzione del nuovo importante castello affiancato ai precedenti centri di potere: la Cattedrale, il palazzo Vescovile e quello Comunale.

Nel XIV sec. i Savoia, dopo le estenuanti lotte per il consolidamento del potere dovettero affrontare la grande sommossa popolare del Tuchinaggio che insanguinò le terre canavesane e che si concluse proprio a Ivrea nel 1391 con la convenzione voluta dal Conte Amedeo VII° di Savoia conosciuto anche come “Conte Verde”.
Con questa vicenda si chiudeva per Ivrea l’età aurea della sua storia, nei secoli successivi si fece sempre più evidente la sua dimensione provinciale.

Entriamo ora nella città dall’antica porta di accesso per chi proveniva da Aosta, la porta “Fontana”, e imbocchiamo la vecchia via Palma di Cesnola, antico “Cardex Maximum” della città romana.

Da questa risaliamo su un’antica rampa selciata che porta alla piazza del castello, fatto erigere, come già detto dal Conte Verde nel 1358.

La fortezza aveva soprattutto scopi difensivi, sorge infatti nella parte alta della città in posizione strategica.

Per edificare il castello fu necessario spianare parte della zona interessata e furono quindi abbattute alcune case signorili ed edifici religiosi, i lavori si conclusero tra il 1393 e il 1395.

Nel 1676 un fulmine colpì la ”torre mastra”, adibita a polveriera, lo scoppio causò la morte di un centinaio di persone e lesionò gravemente il castello; le mura ai lati della torre furono squarciate in parte e i camminamenti di ronda distrutti, la torre stessa rimase mozzata.

A partire dal XVII sec. il castello ebbe un utilizzo prevalentemente militare e cominciò a subire le prime modifiche per ospitare prigionieri di guerra.

Dal 1700 al 1970 fu poi utilizzato come carcere criminale e politico subendo per questo profonde trasformazioni fino a rendere l’interno irriconoscibile rispetto alla costruzione originale.

Lasciando il castello ci avviamo verso il Vescovado di cui non si conosce con esattezza il periodo di costruzione, certamente le sue origini sono quindi molto antiche. E’ infatti, opinione degli studiosi che fosse già dimora del Vescovo Warmondo nel X sec. o addirittura antecedente.

Il palazzo è oggi un insieme di edifici di diverse epoche e forme creatosi nel tempo con aggiunte e modifiche. Sono comunque ancora presenti caratteristiche architettoniche che si possono attribuire al Medioevo, innanzi tutto la torre detta “Torre del Vescovo” che si erge di alcuni metri oltre il tetto, un tempo certamente merlata conserva particolari decorazioni in cotto.

Nella piazza selciata vicino al Vescovado troviamo la Cattedrale di Ivrea fatta costruire da Warmondo probabilmente su una chiesa preesistente risalente al IV sec..
Secondo la tradizione, in epoca romana sorgeva nello stesso luogo un tempio dedicato ad Apollo.

La Chiesa a tre navate conserva, malgrado i molti rifacimenti avvenuti nei secoli, numerose parti che risalgono alla Cattedrale di Warmondo, in particolare l’abside semicircolare e i due alti campanili a forma quadrata tipicamente di architettura romanica.

I due torrioni sono molto simili tra loro ma non identici, sono suddivisi in riquadri sovrapposti con fregi e archetti pensili, nella parte superiore su ogni lato si aprono bifore e trifore.

un illustre pellegrino

Nell’urna posta sotto l’altare nel Duomo di Ivrea, sono conservate e venerate le spoglie mortali del Beato Taddeo McCarthy, Vescovo irlandese morto ad Ivrea nel viaggio di ritorno da Roma, dove il Papa Innocenzo VIII, il quale – in un primo tempo per errata informazione – gli aveva comminato la scomunica come “figlio di perdizione”.

Lo aveva in seguito riabilitato nominandolo Vescovo delle Diocesi unite di Cork e di Cloyne in Irlanda e invitava i suoi diocesani ad accoglierlo con venerazione come uomo “ricco di grande virtù e saggezza”.

Lungo la via del ritorno in Irlanda per prendere il servizio episcopale nelle sue Diocesi, moriva ad Ivrea nella notte tra il 24 e 25 ottobre 1492 a 42 anni, nell’ospizio ospedale del “Vigintiuno” sito accanto alla Cappella di S.Antonio, tuttora aperta al pubblico nella vecchia strada romana per Aosta (Via S.Giovanni Bosco).

Ammirevole esempio di fedeltà e di amore alla Chiesa, di umiltà e fortezza di Spirito, di povertà evangelica, di operatore di giustizia e di pace, di speranza in Dio.

In occasione del V° secolo della morte del Beato Taddeo McCarthy 1992, alcuni pellegrini irlandesi fecero visita all’urna nel il Duomo di Ivrea.

Le spoglie del Vescovo Irlandese – Beato Taddeo McCarthy, conservate sotto l’altare nel Duomo di Ivrea.

il duomo di ivrea

Sotto il piano della Chiesa si trova la cripta che fu costruita in due tempi. La più antica di forma semicircolare, sotto la zona absidale è sormontata da volte a crociera sorrette da colonne, mentre la parte più recente risale al XII sec. ed è divisa in tre navate, le volte sono appoggiate su colonne, il cui fusto viene da un reimpiego di materiali preesistenti.

Nella cripta si trova un antico sarcofago in marmo di epoca romana, appartenuto al Questore Caio Atecio Valerio (seconda metà del I Sec. d.C.) molto ben conservato per essere stato tenuto nella cripta per circa otto secoli, in quanto utilizzato come reliquiario delle spoglie di San Besso per volere di Re Arduino nel X sec. fino al 1700.

Nella cripta si trovano anche tre tombe di Vescovi Eporediesi.

Dal XII al XV sec. la Cattedrale fu abbellita con varie opere pittoriche e con sculture, nel XVI sec. furono erette le cappelle lungo le navate e nel 1854 fu ampliata di un’arcata e fu costruita l’attuale facciata neoclassica. Nella parte posteriore della Cattedrale si trovano i resti del Chiostro del Capitolo dei Canonici, coevo alla costruzione dei due campanili romanici. Il Capitolo dei Canonici comprendeva i sacerdoti che aiutavano il Vescovo nelle pratiche religiose e amministrative della Diocesi e si riuniva nel chiostro per le decisioni importanti.

Poco lontano dalla piazza della Cattedrale sorge l’imponente Seminario maggiore costruito tra il 1715 e il 1765, sotto il porticato a destra dell’ingresso è stata murata una parte del mosaico, del X° Secolo, che si presume provenire dal pavimento del coro della primitiva Cattedrale. Il frammento, lungo mt. 3,32 e alto mt. 1,34 è costituito da tessere policrome che rappresentano i simboli delle arti che s’insegnavano nella locale Scuola Ecclesiastica ed erano divise in : Trivio (grammatica, dialettica,retorica) e Quadrivio: (aritmetica, geometria, musica e astronomia).

Nel mosaico si possono ancora vedere quattro figure che rappresentano appunto alcune delle suddette arti.

Nel Seminario ha sede la Biblioteca Diocesana erede dell’antico Scriptorium del VII e VIII sec. che possiede oltre ventisettemila volumi tra cui il famoso Sacramentarlo di Warmondo risalente al 1002.

Scendiamo adesso la scala (chiamata scala santa) che dal portico dell’Opera Pia Peana ci porta in Via della Cattedrale e da qui scendiamo in Piazza di Città, sulla quale ci soffermeremo in seguito, e imbocchiamo Via Arduino passando davanti alla Chiesa di Sant Ulderico eretta nel XI sec. e legata a una leggenda relativa al passaggio del Vescovo Ulderico di Magonza nella città di Ivrea. Della parte antica rimane evidente solo il campanile romanico, mentre la Chiesa è stata incorporata nella facciata di recente costruzione.

Proseguiamo per Via Arduino, ”Decumanus Maximus” della città romana notando i particolari vicoli che scendevano verso la Dora residui della parte antica e più popolare del vecchio borgo.

Arrivati in Piazza Gioberti giriamo sulla sinistra e, costeggiando la grande roccia su cui era costruito l’antico Castellazzo arriviamo di fronte al Ponte vecchio del Borghetto.

Il Ponte esisteva già in epoca preromana, e per secoli è stato l’unico passaggio verso in Canavese occidentale. Costruito in pietra dai romani fu poi ricostruito in legno nel periodo medioevale e fu coperto e difeso da due torri. Nel corso del tempo subì danni irreparabili e fu ricostruito più volte e utilizzato fino al 1600.

Fu poi ampliato nella versione attuale nel 1830 per l’aumentato flusso di carri e carrozze. I pilastri del basamento romano, appoggiati direttamente sulla roccia, sono a tutt’oggi visibili.

Passiamo davanti alla fontana dedicata a Camillo Olivetti, fondatore dell’omonima azienda che per anni ha dato lavoro a migliaia di persone del Canavese.

Sopra la fontana vediamo ancora la rupe su cui sorgeva il Castellazzo, simbolo di oppressione distrutto per ben due volte dalla furia popolare.

Nella prima metà dell’Ottocento furono ricavati, demolendo parte della rupe, ben 650 metri cubi di materiale per poter costruire parte della passeggiata e strada Lungo Dora che non esistevano in quanto in passato questa zona era delimitata da mura e bastioni difensivi.

Entriamo ora in Via Cavour e quindi ancora in Piazza di Città, nel Medioevo questa zona era occupata da diversi edifici tra cui l’Ospedale De Borgo che rimase in attività fino alla metà del 1700. Al suo posto nel 1780 fu costruito il Palazzo Municipale e formata la piazza.

Entriamo in Via Palestro, parte importante del “Decumanus Maximus” e arriviamo in Piazza Ottinetti, creata nel 1843 in seguito alla demolizione di parte del monastero di Santa Chiara con un intervento di ricucitura tra vecchio e nuovo tessuto edilizio.

Dalla Piazza scendiamo in Via dei Patrioti e raggiungiamo i giardini pubblici dominati dall’antico campanile romanico di Santo Stefano, il quale oggi si presenta come una torre, unico superstite di un complesso abbaziale del XI sec.. Nell’anno 1401 il Vescovo di Ivrea Enrico II° aveva fatto ampliare la parrocchia di Santo Stefano per accogliere l’Ordine Benedettino che si era diffuso in occidente ma non ancora a Ivrea.

Il monastero rimase efficiente fino al 1489 infine nel 1554-1558 il Generale francese Brissac, Governatore d’Ivrea, fece demolire la chiesa e parte del monastero per ingrandire le fortificazioni dalla città.

Nel 1757 il Conte Perrone acquistò ciò che restava del complesso abbaziale e lo fece abbattere per ampliare il giardino del suo palazzo salvando solo la torre campanaria.

Il materiale utilizzato per la costruzione della torre non è costituito da soli laterizi ma anche da materiale di recupero derivente dalla demolizione di altri edifici quasi sicuramente romani.

Percorriamo ora le piazze Rondolino e Fregulia e raggiungiamo Porta Vercelli all’inizio della antica strada che univa le due città.

Percorriamo l’attuale Corso Massimo D’Azeglio fino alla Chiesa di San Lorenzo e prendiamo per Via Cascinette nella zona nuova della città fino all’ incrocio con Via Monte della Guardia, seguiamo la stradina a sinistra e la percorriamo per 300 metri sino ad un altro incrocio dove terremo la destra e poi dopo 50 metri a sinistra per una stradina sterrata che percorreremo sino a giungere nei pressi di un lago.

la chiesa di san gaudenzio

Anno di consacrazione 1724

Architetto Luigi Andrea Guibert

Stile architettonico barocco

Inizio della costruzione 1716

Completamento 1724

La Chiesa di San Gaudenzio ad Ivrea , piccolo gioiello di architettura tardo barocca piemontese, venne edificata tra il 1716 ed il 1724 per iniziativa del prevosto della cattedrale, don Lorenzo Pinchia, grazie anche a generose offerte pubbliche.

Il fervore popoare che sostenne l’iniziativa testimoniava la devozione del popolo eporediese per la figura di San Gaudenzio, santo del IV secolo che fu Vescovo di Novara ai tempi della prima cristianizzazione del Piemonte e che la tradizione vuole nativo proprio di Ivrea.

Dieci anni dopo venne costruita la sacrestia sopra la quale venne posto il coro e, negli stessi anni, iniziò l’edificazione dell’elegante campanile.

Per spiegare la finezza delle forme tardo barocche si è ipotizzato l’intervento giovanile dell’architetto Bernardo Antonio Vittone. Il progetto iniziale della chiesa, tuttavia, viene oggi uniformemente attribuito all’ingegnere sabaudo Luigi Andrea Guibert, attivo ad Ivrea tra il 1714 ed il 1719.

La chiesetta, al tempo della sua costruzione, sorgeva su una piccola altura posta fuori dall’abitato di Ivrea.

Su tale altura salì per molti anni la processione che aveva luogo il giorno della festa del Santo.

Oggi la chiesa è quasi soffocata dalle abitazioni civili che la circondano, ed è raramente aperta al pubblico.

La facciata è suddivisa su tre piani ed è ornata da lesene, da nicchie con motivo di conchiglia e da cornici a linee curve che sottolineano, pur nelle ridotte dimensioni, la spazialità dell’edificio.

Anche l’interno è tipicamente barocco, con eleganti giochi prospettici e pitture con effetto di trompe l’oeil .

Molto suggestiva è l’invenzione illusoria realizzata sforando in alto – sopra la pala con San Gaudenzio in gloria – la parete del presbiterio e lasciando che lo sguardo dello spettatore arrivi alla volta (che pare lontanissima) del coro superiore, ove è affrescata una raffigurazione del Paradiso in cui campeggiano le figure della Trinità.

Si tratta di un’opera eseguita nel 1738-39 e dovuta a Luca Rossetti da Orta, pittore già attivo presso la Chiesa di San Bernardino ad Orta San Giulio e poi, per molti anni, punto di riferimento della produzione pittorica in Canavese (suo, tra l’altro, il grande affresco del Palazzo Vescovile in Ivrea con una suggestiva ed accurata rappresentazione delle parrocchie e della geografia del territorio diocesano).

Dello stesso pittore sono anche la pala d’altare ed i pregevoli affreschi posti sulle volte e sulle pareti, con figure allegoriche, episodi della vita di San Gaudenzio e decorazioni floreali.

In alcuni paesaggi che fanno da sfondo alle scene è riconoscibile la città di Ivrea con il suo Castello dalle rosse torri e le sue chiese notevoli.

In una scena dipinta su un sovrapporta è ripresa la versione agiografica della vita del santo che narra di come, essendo costretto a fuggire da Ivrea sotto minaccia di morte, egli abbia trovato ricovero, la notte prima della partenza, sopra una roccia posta proprio nel luogo in cui oggi sorge la chiesa ed, il mattino seguente, egli abbia steso il suo mantello sulla Dora riuscendo miracolosamente a farsi trasportare in salvo.

In effetti il grazioso altare in marmo – realizzato nel 1764 – è posto proprio davanti alla roccia (lasciata visibile) che la tradizione vuole abbia accolto l’impronta del santo, trasformandosi per lui in un più comodo giaciglio.

La Chiesa di San Bernardino

Stile architettonico: stile rinascimentale

Inizio e completamento della costruzione : XV secolo

La chiesa quattrocentesca di San Bernardino in Ivrea , situata nell’area che ospita gli e

difici industriale della Olivetti, rappresenta un’attrattiva di notevolissimo interesse artistico, in virtù del grande tramezzo interno affrescato con le Storie della Vita e Passione di Cristo da Giovanni Martino Spanzotti tra il 1485 ed il 1490 ca.

1. La storia della chiesa

La chiesa, nella sua prima struttura, fu edificata tra il settembre del 1455 ed il gennaio del 1457 assieme al convento destinato all’ordine francescano Frati Minori Osservanti. La grande ammirazione popolare nei confronti della figura di San Bernardino (che si suppone transitato ad Ivrea nel 1418) avevano convinto le autorità religiose ad appoggiare il progetto di costruzione del convento, che fu inaugurato con grande fasto alla presenza del vescovo di Ivrea, Giovanni Parella di San Martino, e del vicario francescano della provincia di Milano.

La prima chiesa era a pianta quadrangolare con volte a crociera, tipiche dell’architettura gotica; assieme al convento (comprendente due chiostri, le celle del dormitorio, il refettorio ed i laboratori) costituisce un esempio delle soluzioni architettoniche che furono care ai Frati Minori.

La chiesa era stata pensata soprattutto per i frati del convento, ma il grande afflusso dall’esterno di fedeli che prendevano parte alle cerimonie religiose, rese ben presto insufficienti gli spazi ad essi riservati. Nel 1465 ebbero luogo i lavori di ampliamento, con la costruzione di una navata con accesso al pubblico, divisa dalla chiesa primitiva da un tramezzo con tre arcate. L’ampliamento comprendeva anche la costruzione di due cappelle laterali (andate poi distrutte) ed un ardito innalzamento della copertura per ricavare al di là del tramezzo uno spazio, direttamente collegato al monastero e riservato al coro.

L’anno dopo Amedeo IX di Savoia prese il monastero sotto la sua protezione; protezione che continuò dopo la sua morte del 1472 ad opera di sua moglie Jolanda di Valois.

Le fortune del monastero andarono decadendo già verso la fine del XVI secolo, anche a causa della rivalità con la confraternita, pur essa francescana, dei Frati Minori Riformati, che subentrò nella gestione del convento a partire dal 1612, senza tuttavia arrestarne il declino. Nel settecento la chiesa ed il convento subirono un ulteriore degrado a causa delle successive occupazioni militari, sino alla conquista napoleonica ed alla abolizione delle proprietà ecclesiastiche. La chiesa, ormai sconsacrata, venne utilizzata per anni come deposito agricolo.

Camillo Olivetti acquistò il complesso (posto nelle immediate vicinanze della sua fabbrica di macchine per scrivere) nel 1910 ed avviò un suo primo recupero, trasformandolo in sua abitazione. Egli fece anche rimuovere il soppalco costruito a ridosso della parete spanzottiana.

Fu poi Adriano Olivetti che realizzò, tra il 1955 ed il 1958, un più importante progetto di riqualificazione dell’area, destinandola a sede dei servizi sociali ed delle attività dopolavoristiche per i dipendenti aziendali.

Gli affreschi di Spanzotti, restaurati nello stesso periodo, trovarono la loro giusta celebrazione critica in un saggio di Giovanni Testori, che operava in quel tempo ad Ivrea presso i Servizi Culturali della Olivetti.

È merito dell’azienda di Ivrea aver garantito la successiva manutenzione del complesso, pur con alcuni improvvidi interventi di utilizzo industriale dell’area attigua alla chiesa.

2. Gli affreschi

Ben poco si sa degli affreschi più antichi che ornano il presbiterio, i più antichi dei quali realizzati probabilmente a ridosso della sua edificazione (1457)

Nelle due cappelle poste in corrispondenza agli archi laterali del tramezzo troviamo dipinte rispettivamente una Crocifissione ed una Madonna col Bambino, Sante e Santi realizzati attorno al 1470 da ignoti artisti di provenienza lombarda che si attardano su moduli gotici (per la Madonna col Bambino si è avanzata dubitativamente un’attribuzione a Cristoforo Moretti).

2. 1. Il tramezzo spanzottiano

I tramezzi affrescati che ancor oggi si possono vedere in Piemonte e Lombardia e Canton Ticino è dovuta alla committenza dell’Ordine dei Frati Minori Osservanti: essi ubbidiscono ad un programma iconografico ben preciso che doveva servire per dare enfasi alle predicazioni che si tenevano nella chiesa, particolarmente nel periodo dell’Avvento e nella Settimana Santa.

Quello affrescato da Giovanni Martino Spanzotti ad Ivrea è uno dei più antichi tra quelli superstiti, realizzato non molti anni dopo quelli che vengono ritenuti i primi esempi del genere (oggi scomparsi), vale a dire quello della chiesa di San Giacomo a Pavia (con affreschi di Vincenzo Foppa, di Bonifacio Bembo ed altri) e quello della vecchia chiesa di Sant’Angelo a Milano (con affreschi attribuiti al Foppa). La committenza data allo Spanzotti sottolinea il suo debito stilistico verso il Foppa, che già Roberto Longhi aveva puntualmente sottolineato

L’interesse artistico della chiesa si concentra sul grande tramezzo affrescato dallo Spanzotti in due intervalli di tempo tra il 1485 ed il 1490 ca. Vi è narrata la Storia della Vita e della Passione di Cristo in venti scene (ognuna dalle dimensioni di 1,5 x 1,5 metri), più una grande Crocifissione avente una misura quadrupla rispetto alle altre. Le scene che si leggono in successione sono – nel registro superiore – l’ Annunciazione , la Natività , l’ Adorazione dei Magi , la Fuga in Egitto , la Disputa tra i dottori , il Battesimo , la Resurrezione di Lazzaro e l’ Entrata in Gerusalemme ; nel registro di mezzo troviamo l’ Ultima Cena , la Lavanda dei piedi , la Preghiera nell’orto degli Ulivi , la Cattura di Gesù , Gesù davanti a Pilato , Gesù davanti a Caifa ; nel registro inferiore troviamo infine le scene della Flagellazione , l’ Ecce Homo , la Salita al Calvario , la Deposizione e la Resurrezione . La grande e drammatica scena della Crocifissione , che co lpisce l’attenzione del visitatore appena entrato in chiesa, rappresenta il fulcro patetico dell’intero ciclo.

“La cacciata dall’Eden”, Chiesa di San Bernardino, Ivrea

Gian Martino Spanzotti, San Bernardino

Nei pilastri sottostanti troviamo raffigurata una immagine di San Bernardino ed un Cristo in Pietà , mentre ai lati degli archi, troviamo una Cacciata dall’Eden e scene del Giudizio Universale .

Il ciclo sul “tramezzo” della chiesa francescana d’Ivrea riflette non solo la esigenza pedagogica del committente di disporre, per l’ascolto delle prediche, di una “biblia pauperorum” capace di tradurre le scritture in immagini, ma esprime soprattutto i tratti peculiari della devozionalità dei frati osservanti che punta a restituire una genuina carica umana al racconto evangelico. Spanzotti si dimostra capace di interpretare in modo esemplare il desiderio del committente, sviluppando una poetica nuova in grado di conferire al racconto la verità e la nobiltà dell’esperienza umana che è propria degli umili.

Nel suo saggio sugli affreschi di San Bernardino, Giovanni Testori osserva:

« È una nobiltà nuova quella che si fonda in questi anni nel Nord dell’Italia e alla quale lo Spanzotti offre questo suo inconfondibile tono: una nobiltà umana, anziché umanistica; il fatto riportato alle sue proporzioni reali e quotidiane, contro il fatto dilatato dall’iperbole dell’ideologia; il profondo del particolare, infine, contro l’esteso dell’universale. Ma reperire per costanza di verità una parola che ha durato e duri nel destino degli uomini, fitta nella loro carne e nel loro cuore, che grande, umana e, diciam pure, meritoria fatica! »

( Giovanni Testori, G. Martino Spanzotti – gli affreschi di Ivrea , 1958 )

I colori ormai sbiaditi dal tempo e dalle ingiurie subite, non impediscono allo spettatore di cogliere la qualità tecnica dei dipinti e la grande capacità dell’artista nel cogliere la diversa luce degli ambienti e delle ore del giorno.

« Spanzotti si trova libero di vedere stanze di gente contadina così come sono in una luce mattinale già pulite con cura a finestre aperte, con il tronco familiare dell’orto che è li a portata di mano. [..] tanta è la sapienza dello Spanzotti nel trattare le luci sempre in modo naturale, secondo il variare dell’ora e dell’animo. Da quella luce viola che sembra scendere fredda e rabbrividente dalle montagne per rendere più pure le prime scene di sentimento raccolto e domestico ( Annunciazione e Natività ), a quella più calda dei grandi aperti dominati in primo piano dall’asinello vivacissimo ( Fuga in Egitto , Entrata in Gerusalemme ), a quella che bagna il Cristo nel momento della tragedia: quei panni intrisi di luce, nell’angoscia del sentimento – dall’ Orazione nell’orto allo stare davanti a Pilato e a Caifa – una soluzione luministica, così carica di significato, da rendere grande da sola lo Spanzotti »

( Aldo Moretto, Indagine aperta sugli affreschi del Canavese , 1973)

Tra le molteplici qualità artistiche che il saggio di Testori sottolinea deve, quanto meno, essere menzionata la scena notturna della “Cattura di Cristo”, con quel fondersi inestricabile di ombre, figure, mani, lance, corazze e visi che anticipa di oltre un secolo il Caravaggio. Di particolare drammaticità, all’interno della scena della Crocifissione”, è l’accorre disperato della Maddalena, non immemore della lezione appresa dallo Spanzotti osservando la stessa figura negli affreschi eseguiti da Ercole de’ Roberti (allievo del suo maestro Francesco del Cossa) per il duomo di Bologna e nei “mortori” emiliani. Elementi figurativi di chiara ascendenza nordica si spiegano attraverso la influenza esercitata sullo Spanzotti da Antoine de Lonhy.In sintesi, attraverso gli affreschi del tramezzo, l’opera di Spanzotti i si connota come punto d’incontro fertile delle espressioni artistiche presenti sui due versanti delle Alpi, aspetto che caratterizza per molti versi la peculiarità della produzione artistica in Piemonte nel corso di tutto il XV secolo